Nettuno Scacchi

Associazione Dilettantistica Scacchi Nettuno – Gardolo (TN)

Gli scacchi… considerazioni finali su Courmayeur

Gli scacchi sono un mezzo e non un fine. Ci aiutano a crescere.

Chi ha fatto almeno un torneo di scacchi a tempo lungo lo sa; sa che sensazione trasmette l’adrenalina prima di una partita, sa quale altalena di emozioni può nascondere una sfida sulla scacchiera, sa che gli scacchi possono essere “violenti”, sa che davanti alla scacchiera nessuno può barare con se stesso e che pregi e difetti di ognuno si manifestano apertamente, sa che il coinvolgimento emotivo può essere totale, sa che in una partita a tempo lungo arriva il momento in cui il cervello ha un calo di rendimento ed è  latente il pericolo che la memoria procedurale prenda il sopravvento, la mano muova meccanicamente un pezzo e subito dopo ci si accorga dell’errore commesso,sa che dopo una partita occorre sempre un periodo di decompressione come un sub che si sia immerso in profondità entro se stesso.

I genitori che non hanno mai provato non lo sanno, e hanno difficoltà a comprendere appieno questo mondo apparentemente ovattato ed asettico che appassiona i loro figli e che di rimando coinvolge anche loro e li trascina a Courmayeur in un vortice di speranze e delusioni, di re e regine, inchiodature e infilate, per finire con i punti Elo, i Bukholz, e gli scarti.

Una settimana è lunga. L’ultimo giorno sui visi di tutti (ragazzi e genitori) si leggeva una sensazione di liberazione… (“è finita!!!”) eppure c’era anche la voglia dichiarata di riprovarci, di rivederci l’anno prossimo a Palermo (“Si, quest’anno è finita così… ma l’anno prossimo mi preparo meglio e…”).

Qualcuno mi ha chiesto se fossi contento dei risultati dei “miei ragazzi…” ed io quasi di riflesso ho sempre risposto “Si, sono contento… ma io sono contento di default…”. Beh, una risposta così va spiegata meglio. Ma bisogna prenderla da lontano.

Dopo Montecatini, Alghero, Palermo, Monopoli, Jesolo, Merano e Courmayeur una certa esperienza me la sono fatta. Dopo aver visto genitori (non i nostri) aggredire verbalmente i figli per aver lasciato un pezzo in presa, aver visto ragazzini piangere per lo stress, aver sentito altri dichiarare che mai e poi mai avrebbero più fatto un torneo,  mi sono posto alcune domande:

 

  • Vale la pena sottoporre i nostri figli ad uno stress emotivo tanto forte?
  • Se vincere più partite possibili è il risultato agonistico dichiarato, quali sono gli obiettivi secondari ed i possibili effetti collaterali di questa attività?
  • È vero che l’agonismo dovrebbe essere bandito fino a 10 anni?

Non sono domande di poco conto e richiedono risposte oneste, magari confrontate con chi la pensa in altro modo. Le risposte a queste domande implicano una scelta di fondo sul come proporre l’attività rivolta ai ragazzi.

In effetti è uno stress mettersi in gioco, impegnarsi al limite delle proprie possibilità,  rimanere in pressione per ore, imparare a dare il giusto peso alla vittoria, imparare ad accettare la sconfitta, prendere coscienza che qualcuno è semplicemente più forte di te, perdere una partita ormai vinta per aver lasciato un pezzo in presa, accettare l’errore, prendere coscienza che gli errori sono sempre possibili e che l’obiettivo non è eliminarli completamente ma ridurne la frequenza.

Eppure si, ne vale la pena. È la fatica di crescere. Tutti affrontiamo situazioni di questo tipo in tanti ambiti e ad ogni età. Imparare a gestirle al meglio richiede una profonda conoscenza di noi stessi, l’accettazione dei nostri limiti e l’acquisizione di tecniche specifiche che migliorano l’autocontrollo. È un obiettivo alto, richiede un cammino lungo, va al di là e va perseguito prima dei risultati tecnici. Però è un obiettivo alla portata di tutti.

La molla che muove tutto è l’agonismo. Molti educatori sostengono che l’agonismo sia da evitare fino ad una certa età, sono fautori di un approccio esclusivamente ludico a tutte le discipline sportive consci dei danni che un agonismo esasperato può causare ai ragazzi.

Mi sono convinto che sia indispensabile un approccio ludico al gioco degli scacchi, ma ho anche preso atto che i ragazzi appena imparano le regole vogliono misurarsi con gli altri e fare partite. Sta a noi guidarli e fissargli degli obiettivi realistici. Per nessuno di loro lo scopo è quello di diventare un campione. Tutti possono però affinare abilità logiche, aumentare l’autocontrollo e la concentrazione, imparare che più ci si applica più si acquisiscono abilità, che chi gioca da più tempo generalmente è anche più forte, che ci sono ragazzi con capacità innate di intuizione che in poco tempo hanno grandi miglioramenti. Sono d’accordo che sia da evitare, se non in casi eccezionali, un approccio agonistico esasperato fino ai 14 anni.

 

Gli scacchi sono un mezzo e non un fine. Ci aiutano a crescere.

 

È nella convinzione che ci stiamo muovendo in questa direzione che rispondevo… “Si sono contento… ma io sono contento di default… a prescindere dai risultati agonistici che abbiamo ottenuto…”